Papa Francesco in Ungheria , il racconto del 28/4/2023

Da oggi e fino a domenica, il Papa sarà in Ungheria. Due giorni e mezzo di incontri, omelie e annunciati bagni di folla a Budapest. E’ la seconda volta in due anni che Francesco si reca nella capitale ungherese. La prima, nel settembre del 2021, fu in occasione del Congresso eucaristico internazionale, quando si limitò a presiedere la celebrazione della messa conclusiva. In tale occasione diede l’arrivederci e oggi, tornando, mantiene la promessa fatta. In questi mesi, fin da quando è stato annunciato il viaggio, molto si è discusso su una presunta vicinanza a Viktor Orbán, il tutto calato nel dramma del conflitto ucraino. L’equazione, mediaticamente parlando, è stata semplice: Orbán e il Papa dicono le stesse cose, entrambi vogliono la fine della guerra e sono contrari al continuo invio di armi a Kyiv. Una narrazione che il premier ungherese ha usato a proprio vantaggio più volte.

Il Vecchio Contenente chiamato a ritrovare un proprio ruolo autonomo nel cercare una soluzione diplomatica all’ «infantilismo bellico» e la necessità di «non lasciare nessuno per sempre nemico». Il Papa arriva in Ungheria, «al centro dell’Europa», in un Paese che condivide 135 chilometri di confine con l’Ucraina, e cita le parole di Adenauer per invocare «sforzi creativi di pace», senza nominare la Russia ma «pensando alla martoriata Ucraina». Appena atterrato a Budapest, Francesco ha raggiunto Palazzo Sándor, nel quartiere del Castello di Buda, per due colloqui privati con la presidente della Repubblica Katalin Novák e il premier Viktor Orbán, il leader europeo più vicino al presidente russo Vladimir Putin. Quindi, nell’ex monastero carmelitano divenuto sede del capo del governo, si è rivolto alle autorità politiche e civili con un lungo discorso incentrato sulla parabola europea: «Nel dopoguerra, l’Europa ha rappresentato, insieme alle Nazioni Unite, la grande speranza, nel comune obiettivo che un più stretto legame fra le nazioni prevenisse ulteriori conflitti. Nel mondo in cui viviamo, tuttavia, la passione per la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra». In generale, dice Francesco, «sembra essersi disgregato negli animi l’entusiasmo di edificare una comunità delle nazioni pacifica e stabile, mentre si marcano le zone, si segnano le differenze, tornano a ruggire i nazionalismi e si esasperano giudizi e toni nei confronti degli altri».

A un mese dal ricovero al Gemelli, Francesco cammina appoggiato a un bastone ma appare in buona forma, «l’erba cattiva non muore mai!», scherza con i giornalisti in volo, e a chi lo ringrazia per aver difeso Giovanni Paolo II, tra le accuse in Polonia e quelle di Pietro Orlandi, replica asciutto: «Quello che hanno fatto è una cretinata». Ma ora ci sono altre urgenze. «A livello internazionale pare persino che la politica abbia come effetto quello di infiammare gli animi anziché di risolvere i problemi, dimentica della maturità raggiunta dopo gli orrori della guerra e regredita a una sorta di infantilismo bellico», sillaba alle autorità: «Ma la pace non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti: attente alle persone, ai poveri e al domani; non solo al potere, ai guadagni e alle opportunità del presente». Ecco perché «in questo frangente l’Europa è fondamentale», fa notare Francesco: «Grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nem ico». Per questo «è essenziale ritrovare l’anima europea: l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi». Il Papa ricorda le parole di Alcide de Gasperi ad una tavola rotonda del 1953 con Schuman e Adenauer: «È per sé stessa, non per opporla ad altri, che noi preconizziamo l’Europa unita…Lavoriamo per l’unità, non per la divisione». E richiama le «parole memorabili» dello stesso Schuman: «Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche», in quanto la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Così esclama: «In questa fase storica i pericoli sono tanti; ma, mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?».V«Lottiamo per mantenere l’Ungheria sulla via cristiana, ma questa è una lotta molto difficile da ottenere in questa Europa attuale» con «questa guerra che grida per la pace», dice il premier a Francesco. Rispetto a Orbán le differenze sono evidenti, ma l’invasione russa ha cambiato molte cose e il leader sovranista è diventato un interlocutore necessario. Così Francesco si mantiene in equilibrio tra riconoscimenti e avvertimenti, soprattutto in tema di immigrazione. Parla dell’Ungheria come «di un Paese che conosce il valore della libertà e che, dopo aver pagato un alto prezzo alle dittature, porta in sé la missione di custodire il tesoro della democrazia e il sogno della pace». Spiega che «l’unità» del Vecchio Continente «non significa uniformità» e «l’Europa dei ventisette, costruita per creare ponti tra le nazioni, necessita del contributo di tutti senza sminuire la singolarità di alcuno». Così dice di pensare a un’Europa che da un lato «non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali» ma dall’altro «nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli: è questa la via nefasta delle “colonizzazioni ideologiche”, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato “diritto all’aborto”, che è sempre una tragica sconfitta». E riassume: «Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia, perseguite con attenzione in questo Paese, dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno… In ciò la fede cristiana è di aiuto e l’Ungheria può fare da “pontiere”, avvalendosi del suo specifico carattere ecumenico».

Resta la questione dei migranti. Il Papa ha ringraziato Orbán per l’accoglienza dei profughi ucraini, ma non ha certo apprezzato la scelta di sbarrare con muri e filo spinato la «rotta balcanica». Così riprende le parole di Santo Stefano, primo re d’Ungheria all’inizio dell’XI secolo, «ti raccomando di essere gentile non solo verso la tua famiglia, i potenti o gli abitanti, ma anche con gli stranieri», e spiega: « È un grande insegnamento di fede: i valori cristiani non possono essere testimoniati attraverso rigidità e chiusure, perché la verità di Cristo comporta mitezza e gentilezza, nello spirito delle Beatitudini». È questa «una prospettiva veramente evangelica» che «contrasta una certa tendenza, giustificata talvolta in nome delle proprie tradizioni e persino della fede, a ripiegarsi su di sé», chiarisce. E conclude: «È un tema, quello dell’accoglienza, che desta tanti dibattiti ai nostri giorni ed è sicuramente complesso. Tuttavia per chi è cristiano l’atteggiamento di fondo non può essere diverso da quello che santo Stefano ha trasmesso, dopo averlo appreso da Gesù, il quale si è identificato nello straniero da accogliere». Fermo restando che, anche in questo caso, una soluzione può arrivare solo dall’Europa, senza lasciare da sole le nazioni più esposte: «È pensando a Cristo presente in tanti fratelli e sorelle disperati che fuggono da conflitti, povertà e cambiamenti climatici, che occorre far fronte al problema senza scuse e indugi. È un tema da affrontare insieme, comunitariamente, anche perché, nel contesto in cui viviamo, le conseguenze prima o poi si ripercuoteranno su tutti. Perciò è urgente, come Europa, lavorare a vie sicure e legali, a meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà».

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