A Napoli anche gli scontrini del bar ne parlano….

di Riccardo Brescia

Caffè di fine estate, il primo dei soliti tre, quattro, dipende. Passeggio al sole di una piazza che ancora restituisce lontani i rumori di qualche auto. Fra poco tornerà il frastuono di sottofondo sin dalle prime ore del mattino. I marciapiedi appartengono ai turisti che già sono per strada, incantati. Io mi regalo i migliori minuti della giornata, quelli trascorsi nella più qualificante solitudine possibile fatta di respiro rallentato, pensieri liberi, camminata lenta, sguardo rivolto ora alla strada calpestata ora al cielo azzurro, chiaroscuri e ombre che il sole ancora basso regala (restituendo i giusti colori e volumi ai bei palazzi e vicoli del quartiere) e un caffè.

Cambio spesso bar, ritengo i bar un elemento portante del tessuto sociale di un quartiere, sia di chi lo vive perché ci abita sia di chi ci lavora. Per questo mi reco in maniera casuale in uno dei tanti esercizi della zona per conoscere il loro caffè, i barman, per farmi conoscere, per salutare, vedere chi frequenta a quella stessa ora quello stesso locale. Prendo possesso del territorio e mi sento a casa. Mi piace farlo. Stamattina rigiro tra le dita lo scontrino del bar di turno e vedo sul retro della carta su cui è stampato uno scudetto, un “3”, la scritta “Napoli Campione 2022/23” e il disegno di un cuore. Lo Scudetto non è Tricolore ma azzurro-bianco-azzurro; il cuore è azzurro, colorato come farebbe un bambino con un pastello. E’ evidente che la monocromia nasce dall’esigenza di un risparmio economico (costerebbe troppo adoperare tanti colori per la stampa di qualcosa che avrebbe vita minima e scarsa probabilità che qualcuno giri la striscia di carta e veda quanto descritto: una spesa non giustificata). Eppure questo scontrino mi parla.

Non seguo il calcio da quando Maradona ha smesso di giocare e da quando la mia radiolina a transistor non ha avuto più ragione di esistere (per l’avvento delle Pay Tv prima e dei vari canali a pagamento poi) e con lei “Tutto il calcio minuto per minuto”, che mi raccontava – mentre passeggiavo per i vicoli della Sanità –  le partite e le prodezze che solo Diego ha regalato al mondo intero. Dai bassi sentivo la pancia dei tifosi. quelli seri, quelli che ascoltavano o vedevano in tv le partite del Napoli, giovani e anziani; quelli che urlavano o cantavano a squarciagola in occasione di gol fatti, gol mancati per poco, di falli eclatanti (puntuali le imprecazioni sacre e profane), di azioni di gioco di effetto o di grande valore atletico. Riconosco che di calcio non me ne intendo. Per me calcio significava Figurine Panini; significare scambiare Savoldi, Riva, Suarez, Haller, Castellini o Cudicini con almeno cinque figurine ciascuno di calciatori ancora anonimi; significava cercare nella bustina il valore del fuoriclasse di cui sentivamo parlare gli adulti per poi vantarsi con i compagni di classe delle scuole elementari; significava incollare quelle figurine sull’album da conservare come un testo sacro, imparare i colori delle maglie, i simboli di ciascuna squadra, dare un senso di appartenenza e una precisa identità a quei volti fotografati in pose statuarie e pensare che tutto fosse vero. Imparavamo a memoria formazioni – tutte le formazioni – quando era ammesso uno straniero, poi due; il più appassionato e fortunato di noi che frequentava lo stadio raccontava di aver assistito a fantomatiche prodezze che magari non erano mai avvenute, un po’ come faceva Enrico Ameri che con la voce il campo te lo faceva vedere e sul prato verde anche fasi di gioco, alcune delle quali mai realmente viste. Il campanilismo era presente ma solo nell’orgoglio infantile di chi vantava orgoglio per l’appartenenza alla propria città. Non apparteneva alle cronache il racconto di cori razzisti contro Jair, Cané o Sivori. La domenica pomeriggio la Tv trasmetteva un tempo di una partita (in bianco e nero: solo i più fortunati cominciavano ad avere la tv a colori), e le Figurine mostravano – finalmente – i reali colori delle maglie. Era bello. Il calcio per me era questo. Da quando i giganti della comunicazione hanno preso possesso dei campionati il mio interesse è calato. Ingaggi saliti alle stelle, calcioscommesse, cambi di squadre improvvisi, la certezza che tanti movimenti e dichiarazioni offerte a televisione e giornali fossero false e finalizzate solo a nascondere sotto la sabbia accordi sia leciti sia illeciti, la percezione che tutto quello cui assistivo non avesse nulla a che vedere con lo sport e con il senso di appartenenza che tanto ci emozionava da bambini.

Sono contento che la squadra della mia città abbia vinto nuovamente lo scudetto e stia ricucendo un’identità precisa sia riguardo lo staff Dirigenziale che Sportivo. Rispolvero l’amore per la Maglia, quella sì che conta, e finalmente ritrovo un sentiero per recuperare la passione persa anni addietro.  Forza Napoli sempre. Ma nelle mie vene non scorre il sangue di un ultras, mi si perdoni la mancanza. Mi affido alle parole competenti di amici esperti che da anni seguono dall’interno le vicende della squadra e del suo spogliatoio; osservo perplesso i semafori  in via San Carlo che riportano i colori della squadra e lo scudetto tricolore con l’immancabile numero 3 (da tante parti d’Italia mi chiedono di scattare e condividere foto dei suddetti semafori e dei tanti  murales nei Quartieri che raffigurano non solo il Dio del calcio ma tanti suoi successivi discepoli e profeti vestiti d’azzurro); stringo tra le mani il mio album mai completato e rigiro tra le dita uno scontrino con uno scudetto e un cuore colorato da un bambino che ha ancora tanta voglia di tirare calci a un pallone per strada e che in fondo di crescere  non ne ha realmente nessuna intenzione.

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