Il salotto di casa, a 300 all’ora

Autodromo di Imola.
Domenica di fine ottobre. Tempo incerto, ma questo conta poco.
Imola si presenta come una cittadina elegante e silenziosa. Incamminarsi verso il centro è piacevole. Ho la sensazione di avere tutto sottomano, tutto sotto controllo. Le sorprese che le strade e i portici riserveranno possono solo essere piacevoli. Non ho timore di una delusione improvvisa.
Viali, platani in parte spogli (inizia il foliage d’autunno, finalmente). Piazze, portoni, strade lastricate di pietra antica, vicoli senza marciapiedi, fortezze sforzesche e torri di guardia – istantanee di imponenti glorie passate. Angoli ben illuminati; bar e tavolini distribuiti con eleganza lungo muri privi di ogni genere di manifesto o scritta con bombolette. Regna il silenzio, anche laddove la musica allieta il soggiorno di chi indugia per un caffè o una cena. Il ritmo, per chi è abituato alla metropoli (nel bene e nel male) è lento e adeguato all’esigenza di chi intende abbassare le frequenze, di rimettere ordine all’archivio mentale che inevitabilmente costituisce un bagaglio impossibile da lasciare a casa.
Mi incammino tra palazzi di si e no due piani e palazzine alte poco più. Non subisco l’oppressione di altezze elevate o di condomini con abitanti che nemmeno si conoscono. Non posso fare a meno, passo dopo passo, di immaginare Leonardo da Vinci percorrere le stesse stradine, prendere appunti per poi tracciarne la mappa, primo esempio al mondo di planimetria urbana disegnata secondo il suo ineguagliato stile fatto di intuizioni, tecniche all’avanguardia e inconfondibile gusto artistico pittorico. Cesare Borgia gliela commissionò per scopi militari nel 1502: il genio del Rinascimento ne ha fatto un’opera d’arte, conservata tra le collezioni d’arte dei Reali Inglesi a Windsor.
In questo clima di meraviglia interiore, arriva un sottofondo inconfondibile. Un richiamo, il suono di un pifferaio magico che – come nella favola – incanta i ratti che invadono la città e li mette in fila, fino a condurli là dove lui vuole. Solo che il sottofondo non è costituito dalle note suadenti di un antico e fiabesco strumento a fiato ma è il rombo distante di motori che, nonostante lo spazio, ci raggiunge indicandoci senza errore la direzione verso la quale saremo diretti: la meta del nostro viaggio.
L’Autodromo di Imola, intitolato a Enzo e Dino Ferrari.
Già dal sottopassaggio della stazione capisco di che pasta sono fatti gli abitanti della città. Murales di piloti e di auto che – a modo loro – hanno fatto la storia; rampe predisposte per consentire anche a ciclisti di adoperare i loro velocipedi nei trasferimenti da e per il treno. Sto per varcare la soglia di un luogo dove trovano lo stesso diritto di essere – e con pari dignità – soluzioni motoristico-aerodinamiche avveniristiche e biciclette con il cestino per la spesa aggrappato al manubrio. Ciascuno con la propria evoluzione e con la propria natura, proprio come i suoi abitanti. Gente quieta ma che in fatto di motori e di saper vivere non è seconda a nessuno.
Siamo nell’operosa Emilia Romagna, baricentro ideale di tecnologia e brivido, bellezza e rischio, innovazione e storia.
Mi dirigo verso un nastro d’asfalto di circa cinque chilometri, intorno cui ruota quello che spesso viene definito “circo dell’alta velocità” ma che con la nobile tradizione circense non ha molti elementi in comune, se non l’idea stessa di spettacolo.
Il piazzale che conduce all’ingresso della terrazza panoramica e all’area dei box è intitolato ad Ayrton Senna, nel caso mi fossi distratto riguardo dove mi trovo e quale giornata sto per vivere.
C’è armonia intorno, ordine, clima cordiale, eppure il luogo è competitivo per antonomasia. Cosa sfugge alla mia valutazione?
Mi accolgono in fila ordinata i musi anteriori di enormi truck che rivolgono il portellone posteriore ai box e quindi alla pit lane, dove l’accesso è ovviamente vietatissimo. Colori variopinti; marchi; scritte di sponsor. Non manca nulla a quello che ho visto in televisione, solo che tutto è più grande, bello, stupefacente.
Girare per i box è un’esperienza da fare. Uomini in tuta da meccanico lucidano carrozzerie, puliscono vetri, controllano la trasparenza dei fari. I cofani delle auto sono aperti, sembra non ci siano segreti anche tra scuderie avversarie. Posso scrutare liberamente le geometrie dei motori, impianti frenanti dal costo stratosferico e l’abitacolo da marziani entro i quali vengono inseriti i piloti.
E non si tratta nemmeno della Formula 1.
Vedo altri curiosi scattare foto vicino alle auto; fotografi ufficiali rendersi disponibili a facilitare le foto di gruppo. I bambini emozionati guardano i pneumatici pronti ad essere montati, indossano cappellini da pilota e lasciano trapelare gli occhi lucidi perché toccare con mano un loro sogno non dev’essere cosa da poco.
Giovani piloti, uomini e donne, discutono alla pari con anziani meccanici, esperti chirurghi dei motori. Tutti offrono il loro contributo verso la perfezione e la massima sicurezza possibile. Sembra un modo di dire ma solo da bordo pista, pochi minuti più tardi, avrei capito bene quanto importante sia quella collaborazione così amichevole e cordiale, quanto fondamentale sia il rapporto di fiducia che stringono fra loro tutti i componenti la scuderia, nel tentativo di limitare al massimo i rischi di chi guiderà quelle autovetture.
Uno stretto sottopassaggio conduce al di là della pista, alla tribuna che dà sulla linea di partenza.
Sugli spalti si accomodano curiosi, appassionati, addetti. Famiglie intere occupano sediolini colorati quasi fosse il salotto di casa propria. Perché l’autodromo – per un emiliano – è casa.
Basta poco per imparare dal rombo del motore di che auto si tratta. Il rombo è la voce del motore.
Pochi minuti e, dopo l’ingresso in pista delle auto, il giro di prova e l’allineamento della griglia di partenza tutto è pronto.
Già la velocità nel giro di prova dietro la Safety Car mi impressiona.
La partenza zittisce ogni mio pensiero e ogni mia critica nei confronti di un mondo che ancora non conoscevo dal di dentro.
Mi sembrano dei folli che corrono a chissà quanti km all’ora e si sfiorano di pochi centimetri, dove un minimo errore potrebbe essere fatale. Roba da professionisti. A me basta, man mano che le auto tagliano il traguardo, tirare un sospiro di sollievo nel sentire lo speaker rassicurare il pubblico che tutto procede nella regola. L’unica cosa fuori controllo è l’adrenalina per la battaglia che si sta combattendo – a suon di sorpassi e frenate – nella Curva Tosa o alla Variante del Tamburello.
Mi suggeriscono di raggiungere la Curva delle Acque Minerali. Lì è possibile apprezzare meglio la guida dei piloti, i sorpassi, vedere le auto da una diversa prospettiva. Sui prati della collinetta vedo giovani, anziani, ragazzi, fidanzati, appassionati, tutti in silenzio col fiato sospeso appena l’auto in testa impegna la prima curva. Dopo il passaggio delle auto resta sull’asfalto qualche frammento di carbonio. Uno dei tanti addetti in tuta arancione si lancia in pista di corsa corre per prelevare il pericoloso rottame. Tutti, istintivamente, applaudono l’azione del giovane addetto: dal più blasonato pilota all’ultimo delle maestranze – tutti – meritano lo stesso plauso.
La giornata volge al termine.
Delle autovetture, dei box, del rombo dei motori, degli sponsor, delle tribune, della pit lane, del brivido e dell’entusiasmo mi restano negli occhi gli uomini e le donne che costituiscono la spina dorsale dell’affascinante mondo della velocità. Tra quad che trainano interi treni di gomme scorgo un minuscolo palco su cui si celebra una premiazione; tra persone che si muovono freneticamente in cerca di un autografo o di un selfie vedo bambini felici portare a casa pneumatici esausti; tra famiglie felici si mescolano degenti di ospedale temporaneamente congedati, per consentire loro – la domenica – di godere di aria pura e della compagnia dei propri cari.
Ottima qualità del self-service dove ho pranzato; assenza di un gift shop; educazione; efficienza; pulizia e benessere.
Se dovessi scegliere uno stile con cui fare le cose, sceglierei quello visto all’Autodromo di Imola.

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