Ho visto Matrioska, al Theatre de Poche

Scendendo via Salvatore Tommasi, sulla destra (per chi la percorre da Salvator Rosa) o salendo, per chi la risale dal Museo, sulla sinistra, il Teathre de Poche arriva all’improvviso, talmente all’improvviso che se non ci fai caso, rischi di non vederlo.

E’ una porta a vetro nera, a livello stradale; ai lati due piccole bacheche. Tutto qui.

La sera una piccola luce dall’architrave della porticina insieme ad altre due poste dall’interno delle bacheche laterali, illuminano l’angusto ingresso che dà su pochi gradini discendenti, che a loro volta conducono verso alcuni ambienti, gli uni dentro gli altri, e che hanno molto della grotta. E forse lo erano, grotte: cantine, stalle, botteghe di artigiani di oltre un secolo fa o locali per le riserve di legna, carbone, grano e chissà quante altre provviste di pertinenza di qualcuno dei tanti palazzi nobiliari che sbucano un po’ dovunque nella zona di San Potito, tra il Museo e Salvator Rosa.

Di fatto veniamo accolti esattamente in una grotta. Pareti a cupola bassa dipinte di nero (possiamo in alcuni punti toccare il soffitto alzando il braccio); pavimentazione consumata; illuminazione a stento sufficiente a guardarsi in faccia in attesa che si faccia sala; un solo tavolino che fa da accoglienza, biglietteria, appoggio per chi intende sottoscrivere il modulo per l’adesione all’onlus che gestisce il teatro e i suoi spettacoli.

A noi piace così. Questi ambienti non hanno nulla di tetro, malgrado l’aspetto e il colore nero, anzi. Quei gradini discendenti portano verso ambienti che danno sicurezza, suggeriscono accoglienza, propongono silenzio e pace Del resto il Teatro è il luogo per eccellenza in cui tutti sono accolti cosi come sono, qualsiasi abbigliamento indossino, qualunque sia la loro provenienza, lingua, aspettativa, istanza che porti a scegliere quello spettacolo.

Il Teathre de Poche risponde a tutte queste esigenze ed offre tutte queste condizioni, in abbondanza.

Mentre siamo in attesa si faccia sala, ci accorgiamo che – proprio alle spalle dei due cortesi giovani addetti alla biglietteria – un pannello di legno (nero, naturalmente) separa quella grotticina da una più grande dove si terrà lo spettacolo. In pratica ci troviamo in quello che è il retro del palcoscenico. Si intravedono le americane con i riflettori; si intuiscono persone al di là del pannello; si ascolta in loop il brano “ma che freddo fa” in arrangiamento soft sudamericano cantato da voce maschile. Ma soprattutto si sentono improvvisi vocalizzi mandati ad alta voce, forti emissioni di fiato, esercizi vocali attraverso i quali Cinzia Cordella (autrice del testo, della regia e unica attrice in scena) e Gabriele Guerra (tuttofare e supporto in scena di Cinzia) riscaldano la voce e – forse – cercano di trovare concentrazione e carica, prima di accogliere il pubblico.

Forse perpetuano riti apotropaici: si sa, la gente di teatro è meravigliosamente strana.

Ci sentiamo a nostro agio, nulla da dire. Queste condizioni ci calano – anche contro la nostra volontà – nel clima dello spettacono; veniamo letteralmente presi per mano e condotti ai posti (senza numerazione fissa, ovviamente), posti costituiti non da poltrone in velluto ma da comode sedie che all’occorrenza possono essere aumentate, diminuite, orientate diversamente, rendendo maggiormente versatile l’utilizzo di quella anomala e calda sala teatrale.

L’ingresso in sala avviene mentre Cinzia già sta dando forma alla sua performance sotto gli occhi divertiti di alcuni spettatori, occhi interrogativi di altri, perplessi di altri ancora al punto tale che pochi si rendono conto di accedere ai propri posti attraversando proprio le sacre tavole di un palcoscenico. E, per chi se ne rende conto in tempo, l’emozione è tanta.

Matrioska.

Tutti sappiamo cos’è una matrioska: una bambola in legno, vuota, al cui interno c’è una seconda bambola (identica alla prima) anch’essa vuota, al cui interno ce n’è una terza … e cosi via. Una sorpresa dentro l’altra; frammenti di realtà apparentemente uguali eppure ciascuna diversa dall’altra perché a volte è contenuto, a volte contenitore, a seconda del lato da cui le si osserva.

Così ci appare lo spettacolo. Una cavalcata a perdifiato attraverso citazioni, testi originali, voci sapientemente mandate da Cinzia con e senza microfono. Una performance che conduce a uno spettacolo che si smonta e rimonta di continuo; un puzzle cui sembra manchi il tassello finale, quello che darebbe forma al viso del protagonista, ma che all’improvviso viene messo al posto giusto. Magari si tratta di una musica indovinata, un’immagine intrigante proiettata su quello stesso pannello che – nell’attesa della sala – poco prima faceva da separeé tra anticamera e palcoscenico.

Le immagini. Appunto.

Il testo scritto dall’autrice è articolato. E’ un labirinto di storie che si sovrappongono – almeno così ci appare – a sogni, incubi, riferimenti, tutti distinti ma ben incastrati l’uno dentro l’altro: un puzzle.

Non sappiamo se stiamo assistendo al racconto di un sogno o alla rappresentazione di tante performances legate fra di loro. Sappiamo che non stacchiamo un solo istante l’attenzione dalla scena e dai cammei che man mano vanno a comporre una parure a tratti scintillante a tratti oscura ma sempre interessante.

I buio in sala; la luce piena; i brani utilizzati; le immagini proiettate – a volte – anche sull’attrice, mentre recita a memoria righi e righi di copione o vorticosamente ruota in piroette intorno a se stessa; la finzione, ben studiata del botta e risposta tra Cinzia e Gabriele a simulare incertezze in scena ma che sono espedienti voluti per lasciare un dubbio che gli spettatori non risolveranno, nemmeno a spettacolo terminato.

Ecco cosa lega ogni frammento di scena: l’incertezza, su quello che è stato e su quello che si sta plasmando sotto i nostri occhi.

La sinossi descrive Matrioska come una ricerca dell’umano, ricerca di un senso dell’umana esistenza. E lo spettacolo la rappresenta in pieno, assecondando la caratteristica propria di ogni matrioska: la capacità di contenere ciò che si vuole e sperare di trovarci quello che si desidera, senza giudizio né sentenza.

Le citazioni pronunciate richiamano – tra gli altri – Einstein, Giordano Bruno, William Blake … Dante Alighieri; costituiscono dei riferimenti precisi, delle direzioni da seguire, dei respiri profondi da tirar su per risvegliare la mente per prepararla al prossimo step.

Originale e pertinente è il “rito di purificazione”, perpetuato mentre gli attori sorseggiano un calice di vino rosso; rito di purificazione dedicato a tutti, cerimoniale di Accoglienza e Amore che riporta dritto alla Crisi, i cui profili e le cui prospettive erano state descritte – all’inizio dello spettacolo – e ne hanno costituito oggetto iniziale del testo.

Uno spettacolo elegante che va dritto alla pancia; una larga autostrada, senza pedaggio, dove ciascuno può scegliere la corsia nella quale posizionarsi a seconda della velocità che intende sostenere; un corridoio illuminato con tante finestre dalle quali trapela luce e dai cui vetri si può scegliere di scostare le tendine, e guardare meglio cosa c’è al di là.

A spettacolo terminato, risaliti i gradini verso il livello stradale, ho la sensazione di aver assistito a un viaggio astrale, una di quelle esperienze dove sembra uscire dal proprio corpo e guardare se stessi come dal di fuori. Per fortuna il Theatre de Poche è di quei teatri dove è facile attendere gli attori e stringere loro la mano, accorgersi che sono uomini e donne, riportare loro alla dimensione che ci è più consona.

Resta l’eco delle immagini, del testo, dei tagli di luce, del nero della scena.

Resta Matrioska.

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